Quella sua tutina gialla

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kill bill«Si! Il Kung Fu è proprio fico! Adesso voglio comprarmi la tutina gialla di Uma Thurman in Kill Bill e fare il cosplay di Beatrix Kiddo».
Andando in giro per le scuole a mostrare cosa sia quest’arte marziale se ne sentono di cotte e di crude. Bambini delle scuole elementari che vogliono fare tigri, mantidi, scimmie e gru nella speranza di assomigliare a qualche collega di pratica del guerriero dragone Po in Kung Fu Panda. Quando non direttamente il Panda, certo, soprattutto se corpulenti. Ragazzi delle scuole medie che prendono finalmente in considerazione l’idea che alcuni movimenti possono essere fatti per davvero e non solo relegati al controller di una console per videogiochi. Bulletti delle scuole superiori intenti a immaginarsi di usare pugni e calci per affermare il loro ruolo di maschio alpha dominante, mentre a fianco loro compagni più furbi sentono che forse hanno trovato un’arte che li arricchirà molto sotto aspetti non solo marziali. E le ragazze, che sgranano gli occhi quando capiscono che il Kung Fu è per antonomasia un’arte che tutela le persone deboli contro quelle forti: una grande occasione per mostrare all’uomo adolescente che al giorno d’oggi anche la donna può dire la sua, far valere i propri diritti persino sul piano fisico.

kill bill uma thurman tutinaEppure tra tutti sono proprio i nerd che c’hanno azzeccato. Si, quelli che sospettano che non tutto si risolva nel fare a botte. E nemmeno nel conoscere uno stile.
La frase con cui ho esordito, citazione di una giovane profana che del Kung Fu aveva un’idea evidentemente cinematografica, ne è una interessante metafora. Tra voi lettori ci sarà in questo preciso momento qualche praticante devoto, probabilmente qualche maestro, magari di quelli che vivono l’arte più con una onesta ricerca incessante e meno con quello stupido orgoglio che tale titolo spesso consegna loro insieme al colore della cintura. E parlando proprio a loro: quanti hanno pensato «ma quella tutina non è di Uma Thurman! Beatrix l’ha ereditata da Bruce Lee». Il Maestro Quentin Tarantino ci suggerisce, attraverso il suo irresistibile impulso a citare i suoi idoli e mostri sacri, che dietro alle cose complesse c’è sempre una lunga storia. Quella della famosa tutina gialla risale al 1973, pellicola Game of Death (di cui ci siamo occupati nel numero 7 di Kung Fu Life). Ultimo film di Bruce Lee. La storia non si ferma però alla storia: ciò che più conta è il significato, che però nel film Tarantiniano echeggia giusto un po’ nella contrapposizione tra il giallo della Thurman e il nero dei suoi avversari, con tanto di maschera di Kato e quindi citazione della celebre serie The Green Hornet.

game of the deathQuella tutina era l’ultimo passo che Lee volle compiere verso la via della liberazione. Se prima quest’ultima era passata dal Jun Fan Gung fu al Jeet Kune Do, che aveva riscosso un grande successo e aveva consegnato a Lee la fama di marzialista tanto innovatore quanto efficace, adesso il re del Kung Fu tenta di liberarsi anche della sua più grande creazione. Oltre il Jeet Kune Do stesso, alla ricerca solo di se stesso come essere umano che si esprime liberamente nell’arte marziale.
Affida il Jeet Kune Do al suo ultimo e più pericoloso avversario: il gigantesco Kareem Abdul-Jabbar. Con quest’ultimo, Lee sconfigge anche la sua arte. Il messaggio è chiaro: «ho fatto il Jeet Kune Do perché mi sentivo schiavo della tradizione, che imbrigliava le mie idee vietandomi di metterci del mio. Ve l’ho insegnato e con il tempo, la dedizione al maestro e la pratica avete reso anche esso una tradizione, cercando di carpire i segreti dello stile. Abbiamo quindi perso nuovamente noi stessi per affidarci alle sicurezze che un nome autorevole ci concede. Il Jeet Kune Do è quindi diventato uno stile con obblighi e regole: le regole che ho inventato io, Bruce Lee. All’orizzonte si prospetta quindi un’altra gabbia, altre catene. Dobbiamo liberarci anche di esse. Dobbiamo liberarci anche da Jeet Kune Do». La tutina è una divisa neutra, con connotazioni semplicemente sportive.

burce lee tuta giallaÈ comoda. Non più i neri kimono del Chen Jeh dei precedenti film, che per quanto eversivamente sbottonati e con le maniche tirate su rimanevano pur sempre abiti da Kung Fu. Adesso Lee indossa solo quello che gli serve, si libera da qualsiasi altro parametro che non sia inerente alla resa massima di un’efficacia marziale.
Quella tutina voleva essere un simbolo di un’altra imminente liberazione. Chissà cosa ne sarebbe stato del Jeet Kune Do se Bruce Lee fosse vissuto. Se ne sarebbe affrancato davvero? E come? Come avrebbe cercato di non incatenarsi a quel nome che egli stesso aveva creato?
Domande senza risposta, in mezzo all’entusiasmo di una tutina che oramai è più che altro un cult. Esattamente come i vestiti delle Iene di Italia 1, ispirate alle Iene di Quentin Tarantino. Un vestito da indossare per sentirsi come qualcun altro. Un cosplay.

[tweetthis hidden_hashtags=”#brucelee #tutina #UmaThurman #KillBill”]Quella sua tutina gialla ereditata da Bruce Lee[/tweetthis]

Metafora di molte interpretazioni della pratica: vestirsi di uno stile per esserne depositari, precisi e fedeli, magari i migliori. Come i propri maestri, muoversi come lo stile vuole che tu ti muova. Indossare la tutina gialla di Beatrix Kiddo perché l’ha indossata Uma Thurman, che a sua volta ha seguito Tarantino in un cosplay di Bruce Lee.
Oppure indossare quello che ci permette di esprimerci liberamente, comodamente e senza legacci e catene? La tutina è sempre la stessa, siamo noi a decidere come mettercela addosso.

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