Posseduti dal demone guerresco

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Sono sicuro che molti di voi avranno un amico che suona la batteria, studia pianoforte o suona la chitarra solista in una rock-band. Oppure una sorella o cugina ballerina (io ne ho due: bellissime, tra l’altro), un fratello o un compagno di liceo che gioca a calcio o a basket. O ancora: un amico artista che sia poeta, pittore, scultore, romanziere, artista di strada o qualsiasi altra cosa di questo genere.
Sto però parlando di persone particolari, che non “praticano” un’arte o disciplina, ma letteralmente sono la propria arte o disciplina. Essa è cucita addosso a loro in maniera così evidente che sembrano quasi posseduti dal demone artistico, musicale/ballerino/poetico che sia. Un’estasi nietzscheana, per cui mi viene in mente la famosa frase del filosofo Friedrich Nietzsche secondo cui «in verità, chi poco possiede è tantomeno posseduto». Emerge in essa il completo trasporto e l’assoluta perdita di se stessi per cui non siamo tanto noi che ci cimentiamo nell’arte: è l’arte che decide di usare noi come veicolo per esprimere la propria esistenza. Possessione a giusto dire demoniaca — socratica memoria — che impone all’artista dionisiaco una quasi totale perdita del controllo sul proprio corpo, che da solo autonomamente diventa arte.
Viene in mente tutto il discorso sull’adattamento nella difesa da un attacco, per cui allenarsi significa rendere il corpo capace di reagire ad uno stimolo autonomamente e immediatamente. Cosa significa se non che in quell’istante noi dovremo essere “posseduti” dallo spirito del Kung Fu? Non dovremo essere noi a pensare alla nostra reazione: sarà essa a farsi da sé attraverso noi e per la nostra incolumità.

Baudelaire

Torniamo giù dai piani alti dell’idioma filosofico a quello più colloquiale di qualche pratico esempio. Recuperiamo quindi tutti quei nostri appassionatissimi amici che citavo a inizio post. Sto parlando del vostro ipotetico amico che non riesce stare fermo nemmeno con le bacchette del ristorante giapponese, anche se voi cercate in tutti i modi di fargli capire che la ciotola del riso non è un rullante. Poi c’era la cugina ballerina, che aspetta l’autobus con i piedi a “T”, una specie di Xie Bu al contrario e con le gambe distese. Bisognerà stare attenti che quando sale sull’autobus non scambi la sbarra poggiamano per quella da danza, o potrebbe mettersi a fare su e giù con le gambe per aria in mezzo a qualche anziano e confuso signore. Il fratello calciatore che prende a colpi di testa le foglie pendenti dai rami di un albero o lancia per aria le cartacce per provare a fare goal nella pattumiera con un destro al volo. Poi c’è il poeta-artista che si veste come Baudelaire o ha i capelli un po’ sconvolti come Schiele anche se va al supermercato o al matrimonio del suo migliore amico: lui non “si veste” come Baudelaire. Lui è Baudelaire! Quindi sempre e comunque.

Piccolo inciso: questo post nasce a seguito di alcune riflessioni su un paio di cose che mi sono successe recentemente. Innanzitutto è da premettere che sono abbastanza dionisiaco, in quanto a carattere e trasporto: tendo anche io a perdermi in ciò che amo. Questa però non è una pagina del mio diario privato, perciò sarà sufficiente aver accennato minimamente a questa mia caratteristica. Inoltre conosco molte persone che sono completamente perse nelle loro arti.

acquaUna volta stavo parlando con alcuni miei colleghi psicologi e abbiamo fatto un esperimento sulle libere associazioni: dire quello che ci viene in mente immediatamente dopo le parole di un altro, in una continua condivisione di immagini mentali. Ognuno porta se stesso e quindi alcune immagini che ho portato io erano abbastanza marziali: per esempio l’acqua che batte il legno perché devastante e fluida allo stesso tempo. A quel punto qualcuno mi chiede se sto bene, se sono tranquillo: quelle erano a loro avviso immagini abbastanza forti e inerenti a vissuti aggressivi. In realtà no: era proprio il contrario. L’acqua come la risoluzione dell’aggressività nell’equilibrio taoista della conservazione dell’energia (leggete se avete piacere il mio post Macellai, servi, alci) che la stessa aggressività perturberebbe se non fosse in qualche modo gestita.
Il confine tra ciò che siamo e ciò che facciamo si assottiglia molto, a questo punto: proprio come le bacchette del ristorante giapponese vissute come fossero strumenti musicali dal nostro amico batterista.
Mi rendo conto allora, nel tentativo di spiegare il senso naturale e affatto aggressivo di quelle immagini, di essere costretto a rivelare una parte di me che non è più possibile nascondere se non si vuole rischiare l’incomprensione. Il vero guerriero non può non essere dionisiacamente tale perché non può non tenere sempre a mente che il senso della propria arte è quello di conservare e onorare la vita evitando il male e la morte. Questo non è esattamente come confondere le bacchette del giapponese con quelle della batteria: un musicista può anche uscire dall’arte, essere “esorcizzato” e dimenticarsene per un attimo. Non succede nulla: mangerà tranquillo il proprio riso senza rompere le scatole ai commensali. Se “Baudelaire” un giorno va a fare la spesa vestito in giacca e cravatta, potrà comprare lo stesso pane e latte. Ma se un guerriero dimenticasse di essere tale nel momento sbagliato potrebbe morire. Per sua stessa natura il combattimento è imprevedibile, quindi lo è spesso anche un’aggressione. Il guerriero deve essere sempre un Dionisio “posseduto” dall’arte marziale. Se va in giro “esorcizzato” per una strada sbagliata e subisce un’imboscata potrebbe soccombere sotto il giogo nemico.

Naturalmente stiamo parlando di una fisiologica disposizione a comprendere il vero antico spirito del guerriero che non può mai permettersi di essere immemore di sé. Se una disattenzione poteva in battaglia costargli cara, errore uguale ma opposto sarebbe l’essere ossessionato dal pericolo. Così ogni ombra diventa un nemico, e se un amico ci dà una pacca sulla spalla per sorprenderci affettuosamente potrebbe rischiare la rottura del naso. Tra superficialità e ossessione sta quindi il giusto equilibrio — e siamo sempre ancora nel taoismo — dell’attenzione tipica dei rapidissimi riflessi del combattente.

Chiudo con un simpatico aneddoto sull’ossessione, quasi a mo’ di barzelletta. Durante una lezione sulla gestione dello spazio nel combattimento 1 contro 1 e soprattutto 1 contro più persone, il mio Maestro ci spiegò come per un vero marzialista sia fondamentale aver da subito ben chiaro cosa intorno a sé possa essere pericoloso e cosa una risorsa. Si citò allora un caso: in una discoteca piena di gente ubriaca e “bullescamente” minacciosa il vero guerriero sa automaticamente dove sono le uscite di sicurezza. Sa che intorno a sé c’è un ambiente pieno di persone poco affidabili. Pensate però cosa succederebbe se due fratelli di pratica, allievi dello stesso maestro, nel buio della discoteca si scontrassero e ognuno di loro, ossessionato dal pericolo, cominci a difendersi dall’altro dando origine ad un combattimento. Roba che potrebbero combattere con la loro strategia marziale per diversi minuti fino a quando si accende la luce. Proprio allora, i due si guarderebbero e si manderebbero a quel paese.

2 risposte

  1. Ciao, scrivi proprio bene e condivido quanto scrivi. Sono meno “guerriero” di te, in quanto per me, “la miglior battaglia è quella che si vince senza combattere”. Però… visto che sono praticante e istruttore Taiji Quan Amo profondamente il Kung Fu Wushu in tutte le sue forme e aspetti (anche se ho le mie preferenze di “stili”). Per sostenere la tua tesi, cioè “come si fa a vivere senza essere sempre se stessi?”, io ti dico che mi alleno in Tie Bu mentre aspetto il treno, faccio Du Li Bu IN treno o in Kong Chien Bu (per l’equilibrio s’intende). Lavoro al corrimano come fosse il Wooden Dummy, e soprattutto apro sempre le porte con maniglie con un Peng o un Kao… Insomma io non faccio Taiji Quan… io VIVO Taiji Quan… io SONO Taiji Quan, e sono sempre me stesso. Mi guardano strano, sorridono, ma io sono felice perché pratico sempre, anche nei miei sogni. Grazie. A presto, Stefano

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