In questo ultimo periodo ho compreso un aspetto fondamentale relativo alla pratica delle arti marziali, cinesi e non, che spesso è trascurato dai ragionamenti di praticanti ed esperti.
Mi è capitato di osservare insegnanti ed allievi impegnati in esibizioni di diverse arti marziali cimentarsi tra forme, tecniche di difesa personale, esercizi di Qi Gong, spiegazioni al pubblico e racconti di aneddoti.
Ognuno di loro, più o meno esperto, mostrava nei gesti e nelle parole una sorta di consapevolezza dell´arte che sembrava volesse dire <<Ti sto mostrando (o ti sto raccontando) qualcosa di particolare, fuori dal comune, che solo chi vive il mondo delle arti marziali sa comprendere>>.
In effetti la disciplina che caratterizza le arti marziali orientali, gli infiniti obiettivi che costituiscono il percorso marziale, il senso di rispetto donato quasti gratuitamente al grado superiore o la maniacale ripetitività di posizioni e tecniche necessaria all´apprendimento non sono principi immediati da interiorizzare e rendono gli artisti marziali una “razza a parte”.
Tuttavia ho capito che manca a una cosa…
È stato come guardare qualcosa che mi è sempre stato davanti agli occhi senza che io lo vedessi.
Manca il dubbio.
Premesso che non posso conoscere il percorso e la ricerca che hanno reso le persone che ho osservato o con le quali ho parlato ciò che sono, in nessuna di loro sono riuscito a percepire la sensazione che nelle loro arti marziali ci fosse spazio per l´incertezza o le domande.
Quali domande?
Qualcosa del tipo <<Ma quello che sto studiando è il meglio che posso avere?>>, oppure <<Quello che faccio è la “completa” arte marziale o è solo ciò che il mio maestro è in grado di insegnarmi?>>, o ancora <<Esistono altre discipline o altri stili o sistemi che fanno quello che voglio fare io, ma lo fanno meglio?>>.
Mi rendo conto che non sono domande così scontate da comprendere e tanto meno da porsi, ma sono anche le questioni che spingono alla ricerca ed eventualmente al cambiamento.
L´interruttore che ha acceso la luce è stata la solita questione relativa all´efficacia delle tecniche di difesa personale.
Tutte le persone che ho osservato o con le quali ho parlato e che praticano un´arte marziale che contempla l´autodifesa sono convinte che la loro disciplina permetta di imparare a difendersi in caso di pericolo reale. Fino a qui nulla di strano… se si tratta di arte marziale dovrà per forza insegnare a difendersi. Tuttavia, anche davanti all´evidenza dell´inefficacia di alcune tecniche (non di tutto lo stile, solo di alcune tecniche) il dubbio non è sorto e non ci sono state neanche spiegazioni o giustificazioni… semplicemente l´argomento non era importante.
Quindi i dubbi sono sorti in me. Come può uno studente di arti marziali studiare una tecnica di difesa personale che evidentemente non funziona senza farsi neanche una domanda relativa all´efficacia?
Poi ho capito. È una questione di priorità. Lo studente in questione non era alla ricerca della reale applicabilità del sistema, bensì desiderava sentirsi parte di quella “razza a parte” che chi non fa arti marziali non sa comprendere. Gli piace essere nella gerarchia orientale di maestro-allievo e ha la necessità di identificare come “imbattibile” l´insegnante che gli “vende” la tecnica non applicabile come un modo per difendersi. Non ha assolutamente bisogno di dubbi o cambiamenti che per natura sono dolorosi. Ha bisogno di radicarsi al terreno delle certezze marziali che ha conquistato nel tempo, vuole restare saldo in ma bu senza farsi squilibrare dalla realtà.
Il mondo delle arti marziali è in ma bu, statico per un tempo infinito, al fine di fortificare le proprie convinzioni al di lá di ogni sospetto. Così si fa perché così è… punto. Cambiare significa ricominciare, togliersi la cintura nera da maestro e indossare quella gialla da allievo; svuotare la tazza per poterci versare dell´thé … molto meno faticoso stare in ma bu.