La via verso la liberazione dalla schiavitù asinina

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enter the dragon

Un uomo cammina per una stradina sopraelevata, che dà su un ampio prato in cui si allenano centinaia di uomini in gialli e bianchi kimono. Un pugno dopo l’altro, tengono il ritmo di un insegnante che lo scandisce con fermi e potenti colpi di voce. Tutti il destro e poi tutti il sinistro, all’unisono. L’uomo osserva, ma subito il suo sguardo cade a terra, soprapensiero. I suoi occhi esprimono una tristezza mista a delusione, rassegnazione e sconforto. Come se soffrisse di una diversità che va oltre il colore del suo kimono affatto bianco o giallo, ma nero. Diversità che potrebbe colmare uniformandosi, ma egli in cuor suo spererebbe tanto che siano gli altri a trovare ognuno il proprio colore. Ed ecco: si avvicina un uomo e gli ordina di indossare un kimono giallo. Egli risponde con uno sguardo di ancor più profonda amarezza.

145979249_bruce-lee-16-enter-the-dragon-brown-suit-head-kung-fu-Questo è un fotogramma del film Enter The Dragon. L’uomo è chiaramente Bruce Lee, appena arrivato sull’isola dove si svolgerà un torneo di arti marziali. I partecipanti si stanno allenando e sono vestiti tutti uguali, Lee invece preferisce allenarsi in camera vestito come preferisce e liberamente.
Libertà è un termine chiave nella teorizzazione del suo Jeet Kune Do, che prima di essere la «via del pugno che intercetta» voleva essere la «via verso la liberazione». Liberarsi da cosa? Uscire dagli schemi classici, dalle cristallizzazioni che la tradizione ci tramanda. È facile esprimere l’essenza di uno stile comprendendone i movimenti e diventandone maestri, ma immensamente più difficile è esprimere se stessi nel movimento, diceva. Liberarsi dagli stili, dai sistemi che pensano al posto nostro, dietro quell’idea secondo cui c’è già stato un gigante che nei secoli pensò già tutto il pensabile e a noi nani tocca solo ubbidire.
Ma noi nani gli stiamo sulle spalle e sulla testa e giocoforza i nostri occhi raggiungono altezze superiori, proprio perchè quel gigante ci consente di usare la sua stazza come slancio per il nostro sguardo.
Lee sceglie il colore del proprio kimono e come, dove e quando allenarsi. Sceglie da che parte stare e di fregarsene del torneo per salvare gli sfortunati prigionieri di quel malvagio uomo con un artiglio al posto della mano. Il prezzo saranno quei tre celebri graffi su addome, petto e guancia. «Qual è il tuo stile?», gli avevano chiesto sulla barca che lo stava conducendo all’isola. Aveva risposto «lo stile di combattere senza combattere».

enter the dragon

Sono convinto che il 99% della gente che comincia a praticare Kung Fu lo faccia perché è esistito Bruce Lee. C’è chi esplicitamente confessa di esserne ammirato e di assumerlo come modello. C’è anche chi non lo sospetta nemmeno, ma fin da piccolo furono i suoi film a rivelare all’occidente l’esistenza di quell’arte marziale. Sono anche convinto che, di quel 99%, una percentuale bassissima abbia realmente compreso il messaggio veicolato dal Jeet Kune Do. Naturalmente questa mia affermazione non fa di me qualcosa di più di un normale praticante che sostiene di aver capito qualcosa meglio degli altri: di noi ne è pieno e le diatribe sono infinite. Eppure credo di intuire ciò per cui il Bruce Lee pensatore e filosofo si è tanto battuto, rivolgendosi però ad una platea di praticanti, di marzialisti e non di pensatori. È per questo che il messaggio è stato frainteso: non era per soli artisti marziali, era per pensatori.

Chi ha paura di pensare? Nessuno, naturalmente. Quella è una paura che viene percepita solamente quando sta per essere vinta, ovvero solo da chi si mette in dubbio. In esso le certezze spariscono e ci si ritrova senza punti fermi: lo stile, i maestri, gli avi, la tradizione, la storia sono spariti. Soli davanti a noi stessi, nient’altro che noi, terrorizzati dal darci la parola per rompere quel silenzio che l’assenza del tuo Buddha, del tuo guru ha innalzato. Due strade: interrogare ancora il Buddha o tentare di rispondere noi. Se già senti quella paura vuol dire che forse ci stai già provando. È però convenientemente più facile dare la parola ancora ai nostri avi, alla tradizione, al nome del nostro stile e a quello del nostro maestro. Tutte cose che però non saranno mai ciò che si frapporrà strenuamente tra la nostra incolumità e il pericolo, tra noi e l’aggressore. In quel momento ci saremo solo noi e lui. E tutto quello che ci servirà, dipenderà da come in quell’istante riusciremo a pensare.

pensatore

«Pensare». Ancora quella parola da tutti proferita senza paura. Ma ancora una volta non si tratta tanto della paura di verbalizzarla, quanto più di seguire ciò che essa ci suggerisce. È lì che il terrore di perdere tutto si maschera di nozionismo, pignoleria, pedanteria. «Pedanti asinini» erano coloro che, secondo Giordano Bruno, non facevano altro che disquisire di discorsi rivestiti dalle stesse tronfie parole che Leon Battista Alberti metteva in bocca agli stupidi saggi imbevuti di filosoferia aristotelica. «Stupidi saggi» è un ossimoro molto interessante, nel momento in cui si intenda però connotare persone più sapienti che sagge. Sapienza è infatti legata più alle nozioni, alle dottrine, alla quantità di informazioni di cui si è a conoscenza. Saggezza è invece una disposizione d’animo, quasi caratteriale, un modus vivendi. Il saggio di Russell vive nel dubbio più che nella conoscenza; il sapiente vive invece nella conoscenza di ciò che lo rende tale. Saggezza è sapienza socratica, il «so di non sapere». Più o meno lo stesso senso ha il dubbio cartesiano, che non può essere sicuro di null’altro fuorchè di una cosa. Già, cos’era? Posso mettere ogni cosa in dubbio, ma di certo c’è che io esisto proprio perché sono nel dubbio. Vuol dire che nel dubbio ci siamo soltanto io e…nient’altro: è dubbio estremo proprio perché, tranne che di me, non sono sicuro di altro. Cogito ergo sum implica allora che lo spaesamento dell’essere soli di fronte a se stessi sia anche però un’affermazione di sè e del proprio diritto a essere unici. Pensare e dubitare di ogni cosa per esistere senza che l’esistenza di nient’altro ci sia assicurata. Solo noi e il dubbio: solitudine, forse…ma anche libertà. Nessuno può avere colpe o meriti se non io, nel momento in cui sono l’unico responsabile delle mie azioni e scelte. Non c’è un maestro, uno stile, una tradizione che mi facciano da schermo. Sono più esposto, questa “nudità” fa paura. Ma la libertà è proprio un essere nudi, non soffocati da alcun capo, vestiario o dittatore che sia.

bruce lee

La via verso la liberazione è prima di tutto un lasciare andare tutto e avere il coraggio di guardare se stessi. Lee non volle kimono gialli o bianchi, o vestiti standard. Volle essere se stesso, e la prima risposta della tradizione fu «tu non sei nessuno, devi uniformarti a noi». Ne ebbe luogo uno scontro, sia ideologico che fisico. Il primo diede origine al Jeet Kune Do. Il secondo al famoso aneddoto secondo cui Bruce venne sfidato da un maestro di Kung fu tradizionale inviato dalla tradizione. Il punto non è chi vinse. Il punto è che in quell’istante Bruce decise di “denudarsi”, di uscire dalle tronfie parole della pedanteria asinina per liberarsi. Ogni volta che c’è di mezzo la libertà, le catene tornano a cigolare e a fremere perché è per esse insopportabile che il dubbio sia il vero cuore dell’affermazione della propria libera esistenza. E questo a prescindere dagli esiti dello scontro, perché le catene potranno bloccare sempre e solo polsi e caviglie.

bruno

«Stolti del mondo son stati quelli ch’han formata la religione, gli ceremoni, la legge, la fede, la regola di vita; gli maggiori asini del mondo (che son quei che, privi d’ogni altro senso e dottrina, e voti d’ogni vita e costume civile, marciti sono nella perpetua pedanteria) son quelli che per grazia del cielo riformano la temerata e corrotta fede, medicano le ferite de l’impiagata religione, e togliendo gli abusi de le superstizioni, risaldano le scissure della sua veste; non son quelli che con empia curiosità vanno, o pur mai andâro perseguitando gli arcani della natura, computâro le vicissitudini de le stelle». (dalla declamazione de La cabala del cavallo pegaseo)

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