<<Chi non ha un maestro è destinato a muoversi nel buio>>, diceva un mio vecchio amico. Uno che ne capisce, maestro di Karate e Ju Jitsu giapponese. Lo diceva però quando ancora non insegnava, quindi in tempi non sospetti: non è, insomma, una frase che gli conveniva o che serviva per tenere sotto di sé, obbedienti, allievi potenzialmente critici.
Di personaggi che invece si comportano esattamente così ce ne sono davvero tanti. Sembra che non sia possibile arrivare mai al punto in cui si può obiettare qualcosa, dire la propria, proporre qualche riflessione critica.
No. Nel Kung Fu c´è la dittatura. Se ne fa portavoce la tradizione, che ne è la più ardua difesa: nulla può ergersi al di sopra dei dettami delle antiche parole. Dopotutto, se gli stili di Kung Fu risalgono ad un tempo in cui non c´erano forum e avvocati, parole e constatazioni amichevoli, in cui tutto si risolveva con la violenza, quando fare la guerra significava guardare dritti negli occhi un nemico a pochi centimetri di distanza, come darle torto?
Per noi oggi un pugno sembra una roba violentissima, ma una volta era una carezza. Per questa ragione gli antichi avranno sempre ragione su di noi: di combattimento ne capivano di più perché combattevano per davvero. Quindi silenzio, loro insegnano e noi impariamo. Loro i maestri, noi gli allievi. In silenzio, possibilmente, perché qualunque parola è segno di presuntuosa mancanza di rispetto verso la figura del Maestro.
Il silenzio non è da buttare, anche se non proprio quello imposto dalla tradizione. A volte si ha bisogno di silenzio perché si è ascoltato troppo, così tanto da non riuscire a sentire più la propria voce, la propria vocazione marziale. La propria Via.
Certo, per non brancolare nel buio bisogna svuotare la propria tazza e permettere al Maestro illuminato di versarvi il suo the, altrimenti ci guarderà dritti negli occhi e, mentre lascia traboccare per davvero il the da una tazza sul tavolo, sussurrerà con sapienza qualcosa tipo <<Come fale io a liempile tua tazza con the, se tua tazza già piena è?>>
Il troppo stroppia. L’equilibrio ci suggerisce che non si tratta di scegliere la presunzione o l’obbedienza, ma l’intelligenza di capire quale sia la nostra fase evolutiva. A volte, arriva un momento in cui il silenzio è necessario, ma non quello di noi allievi: quello loro, dei Maestri.
E basta con tazze, the, stili e dettami. Ad un certo punto le parole e gli schemi hanno seppellito sotto una coltre di chiacchiere la nostra vocazione marziale, quella via che può essere sempre e solo una via speciale, individuale e quindi soltanto nostra, tua personale, proprio di te che stai leggendo adesso. Come dire: bevi e ribevi il the degli altri, ma ad un certo punto bisogna che impari a fartelo perché se non c’è nessuno muori di sete.
A proposito di proverbi e cineserie varie, ce n’era una che diceva <<Dai ad un uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo sfamerai per sempre>>. Più o meno è la storia del the e della tazza traboccante. Insegnate dettami, stili, regole, sistemi e indicherete una via. Insegnate a orientarsi, e la via la si troverà da soli.
C’è bisogno di silenzio, intimità, di stare davanti all’arte marziale completamente da soli. Nudi, di fronte a essa, scevri da qualsiasi giudizio altrui. Solo tu e lei.
Detto così sembra fantastico: in questo modo allora ognuno farà quello che gli pare perché tanto non si deve obbedire al maestro. Tutto questo mi ricorda quando un nostro spiritoso lettore ci inviò un commento chiedendoci, con sarcasmo, <<Ma perché la vostra rivista non si chiama “Facciocomemipare Life”, visto che scrivete solo come vi pare a voi?>> Hu, quella volta fu forte il bisogno di silenzio: un indizio eloquente su che cosa voglia dire consacrarsi ai dettami di uno stile, di un maestro, di un sistema. In realtà sarebbe un ottimo nome, che incarna precisamente quello spirito: non capisco per quale ragione uno non dovrebbe fare quello che gli pare e fare quello che pare a qualcun altro. Si dirà: <<E vabbè, così però è concesso tutto e pure gli ignoranti insegneranno il loro sistema>>. Beh, non si avrebbero tutti i torti… ma l’ignoranza è cosa abbastanza forte da pensarci essa stessa a fare selezione. Gli schiavi della propria ignoranza resteranno tali e non andranno molto al di là delle loro incompetenze.
Come sempre, dipende da come si usano le parole. Da chi le usa, dalla sua buona fede, dai suoi primi e secondi fini. Dai retroscena economici e commerciali, dalle questioni di orgoglio e vanità marziale, dall’intelligenza delle persone.
C’è bisogno di silenzio, di guardare la propria arte negli occhi, da soli davanti ad essa. E questo è abbastanza terrorizzante, perché più che la sfrenata libertà del “farecomemipare” ben presto noteremo la responsabilità del tutto: non sarà più possibile dare la colpa al maestro, prendersela con il sistema, con lo stile o con qualcun altro. Solo noi, gli unici responsabili, da soli. Nessuno che si prende la colpa. L’ignorante capirà ben presto che l’appagamento della propria vanità e presunzione non vale la candela nel gioco sulla responsabilità. L’allievo pronto sentirà forse il momento di una svolta, la paura e il timore di dover fare da solo, del non poter più cavarsela a lezione con i meno avanzati con <<Il maestro ha detto così, quindi facciamo così>>.
A volte c’è bisogno di silenzio, di lavorare per sé e con sé. Di capire dove si sta andando, di “farecomevipare“.