Avrete sicuramente visto il film The forbidden Kingdom con Jackie Chan e Jet Li. Oppure i classici Karate Kid o Il ragazzo dal kimono d’oro. Devo essere sincero: quando ero bambino ero veramente fissato con questo genere di film. La figura dell’attore Kim Rossi Stuart ancora adesso mi suscita ammirazione e mi fa ricordare quella maglietta larghissima rubata a mio padre, gialla, con la cintura dell’accappatoio legata alla vita. Era il mio kimono d’oro.
Sono cresciuto con questa idea delle arti marziali. Forse per questo sono molto sensibile all’argomento efficacia e ho fastidio per i santoni e chi non si rende conto che non si può insegnare con superficialità la difesa personale. Siamo corresponsabili di quello che può accadere a un nostro allievo: se gli abbiamo insegnato che può difendersi con tecniche e principi indimostrabili e irrealistici, quando le prenderà avremo un po’ di colpa.
In ogni caso, che sia Quino o il biondo Johnny Lawrence di Karate Kid, ho fin da subito conosciuto le arti marziali come qualcosa che potesse essere un rimedio alla presunzione, prevaricazione e violenza degli altri ragazzi.
Sono cresciuto al Sud, negli anni 90, dove i valori inerenti alla forza e alla gerarchia in cui il più forte predomina sugli altri erano ben saldi. Che sia Sud, Nord, Est o Ovest (magari Nord Sud Ovest Est…! proprio le musiche di quegli anni), i casi di bullismo sono oramai diffusissimi.
In rete se ne possono trovare molti, documentati soprattutto all’interno delle scuole. Cosa possono fare le arti marziali in merito? Beh, sicuramente non è il caso di insegnare Wing chun a un bulletto e mandarlo a riscuotere i soldi della merenda dai suoi impauriti compagni a suon di Faak Sao. In quei film erano proprio i ragazzi deboli e sottoposti alle torture dei loro coetanei che studiavano un’arte marziale e poi alla fine si riscattavano.
Fuor d’arte (se il cinema è la settima arte) esistono molti programmi appositamente creati per le scuole da maestri di arti marziali sensibili all’argomento. Studiare, far approcciare e conoscere l’aggressività ai ragazzi per gestirla al meglio. La propria e quella degli altri. Queste sono le risorse migliori che un’arte come la nostra può dare ai giovanissimi.
Nelle scuole, tuttavia, è evidente che si lavori con un’impostazione più “psicologica” o al massimo “psicomotoria”: non si può trattare la difesa personale dal punto di vista tecnico-applicativo. È molto importante non comunicare roba tipo «se ti aggredisce un bulletto, ti insegno come stenderlo». Si insegna piuttosto a gestire le cose a priori. La realtà è però sempre un passo avanti a noi e non possiamo esimerci dall’ipotizzare la possibilità che si possa essere messi con le spalle al muro, senza troppa possibilità di scelta: bisogna darle per non prendersele. È molto difficile che nei programmi scolastici si pensi a eventualità del genere. Per esperienza personale di insegnamento nelle scuole, è come se non si volesse soffermarsi troppo su eventualità del genere. Come dire a «Ragazzi, se saprete gestire bene i primi approcci aggressivi di un bulletto, non ci sarà bisogno di difendersi». Così evitiamo di insegnare a un ragazzo a menare: questa è più o meno la posizione sottostante.
Il problema è però duplice. In primo luogo, come già ho scritto, non possiamo escludere che non si abbia altra scelta se non quella di difendersi. Mio padre da bambino mi diceva sempre che non dovevo alzare le mani, ma se lo facevano altri su di me dovevo difendermi: è secondo me questo il vero spirito delle arti marziali. Secondo: non è che non volendo guardare il problema da vicino finiamo per non far avvicinare i ragazzi allo studio dell’aggressività che tanto menavamo con i progetti scolastici? Volgiamo lo sguardo altrove e non forniamo agli studenti i mezzi tecnici inerenti al progetto. Li teniamo a distanza. Stai a vedere che alla fine, se qualcuno le prende, dovrà anche sentirsi in colpa perché non è stato bravo a gestire il pre-conflitto come gli hanno detto a scuola.
Il discorso è estremamente complesso: finire all’eccesso opposto sarebbe ovviamente come sposare una visione pacchiana delle arti marziali, sovrapponibile a quella di “arti della violenza”. La virtù sta forse nel mezzo, ma il discorso potrebbe aver bisogno di molti approfondimenti.
Seguite Kung Fu Life: un post è troppo breve per un argomento del genere e mi piacerebbe dialogare con voi attraverso un numero della nostra rivista.
Mi raccomando: a presto!
2 risposte
D: Maestro, come posso sapere quando devo combattere?
R: Quando l’unica direzione in cui ti puoi muovere è avanti.
questa è bellissima