Circa dieci anni fa feci una telefonata che influenzò profondamente il mio cammino da artista marziale. Arrivavo dal mio primo anno di arti marziali, se fra queste discipline non vogliamo includere la boxe inglese, che avevo già praticato in precedenza, un anno di allenamenti intensi e sfiancanti. Sicuramente uno degli anni più importanti della mia vita, dato che l´incontro con il Kung Fu ha letteralmente rivoluzionato quello che ero in virtù, o vizio naturalmente, di quello che sono adesso. Il primo anno da marzialista, l´anno in cui il corpo soffre ad imparare posizioni che per lo sport occidentale sono chiaramente atipiche e pittoresche e la mente cerca di imparare ad imparare le forme, che in quanto tali richiedono uno specifico genere di apprendimento che fino ad allora non avevo mai sperimentato.
Se il corpo pativa i Ma Bu e le spaccate e la mente rincorreva le sequenze dei Tao Lu, anche lo spirito aveva di che preoccuparsi: fu proprio quest´ ultimo che venne pervaso da quell´ “illuminazione” che prende un praticante su 100. Quella specie di scoperta che esiste una modalità di vita alternativa e che si basa su una disciplina che non è una disciplina ma un modo di essere: la via del guerriero. Tutto diventa funzionale o comunque da inserire compatibilmente ad un personaggio che non è più quello di prima, perché è un combattente. Uno che non molla, che non vuole farsi mettere i piedi in testa ma che non dimentica mai i valori della pace che rendono appunto il Kung Fu difesa e non attacco personale.
Gli allenamenti si alternano a chiacchierate con compagni di pratica che aumentano le nostre conoscenze: cadono i primi luoghi comuni di cui anche noi in quanto profani eravamo vittime. <<Il Karate è per la difesa, il Kung Fu è per l’attacco>>, <<Judo contro uno, Karate contro tre, Kung Fu contro tutti>>, <<Il vero Kung Fu non puoi mostrarlo a nessuno perché è mortale>>. Una bella aggiunta di esorcismi anti-taranta e fuochi di sant’Antonio, conditi con la immancabile frottola che i Dobermann impazziscono a sette anni perché il cervello continua a crescere e la scatola cranica no e saremmo belli e pronti per il festival della stupida leggenda metropolitana. Lo spirito intraprende un cammino che ci schiude il fascino dell’esotico, dell’orientaleggiante che ci lancia nelle librerie alla ricerca dei vari Tao Tè Ching, I Ching, Libro dei 5 anelli, L’arte della guerra e se siete proprio “kungfuici dentro” l’immancabile Tao del Jeet Kune Do di nonno Bruce.
Insomma ragazzi, ci si finisce dentro come in una tempesta che stravolge tutto il tuo essere e lì decidi: da oggi sono un’artista marziale. Ma mentre alcuni miti e luoghi comuni stile “coccodrilli nelle fogne sotto la città” cadono subito e senza troppo dolore, altri nascono con l’aumentare dell’esperienza e si fa veramente fatica a liberarsene. Da non crederci: ero lì che buttavo sangue, sudore e chili da un anno, e quella telefonata mi stravolse. Io ero un guerriero, diciamo così, un esperto del combattimento. Di che? Di Nanquan. Si si, avete capito bene: proprio quello del Wushu moderno.
Ora, magari tra voi lettori qualcuno starà pensando <<Ma guarda, quel tipo lì che la mena così tanto sul fatto che le forme non sono applicabili, che la tradizione è una gabbia, che l’efficacia è da ricercare anche se è solo ideale, alla fine credeva di combattere con il Nanquan!>>. Beh, è vero: ma forse è proprio per quello che sono diventato intransigente con chi non mostra chiaramente di lavorare seriamente sulla difesa personale. Per questo poi saltano fuori lavori come il numero 9 di Kung Fu Life, che se non è un tentativo di secolarizzazione e disincantamento degli stili interni poco ci manca.
A me non l’aveva detto nessuno che il Nanquan non era stato pensato per la difesa personale, e l’ignoranza in questo caso non è un difetto ma un alibi. Alibi che però non hanno gli insegnanti che avevo in quel periodo, che mi illusero come illusi sono oggi chissà quanti neopraticanti. Ci vuole del rispetto per questi ragazzi che sposano una filosofia di vita e cominciano ad allenarsi allenarsi allenarsi, come dice il ben più serio maestro Maurizio Zanetti. Gente che addirittura diventa buddhista, taglia i capelli a zero e che fino all’altro giorno invece li vedevi conciati come Robert Plant o Jim Morrison, all’insegna della trasgressione e del lassismo. Proprio loro, adesso, pieni di disciplina e regole. Che se si salta un allenamento arriva un senso di colpa che rivela una dedizione che rasenta l’ossessione.
Rispetto, però, ce ne è poco. Ma quella telefonata, signori, fu una di quelle telefonate che riportano i nodi al pettine. Un mio collega molto più avanzato, quasi cintura nera di Nanquan e già cintura nera di Aikido, mi disse pressappoco questo: <<Io studio Wushu perché voglio una cintura nera di discipline cinesi e non voglio approfondire chissà quanto la tradizione. La mia arte marziale è l’Aikido, a me il Kung Fu tradizionale nemmeno piace>>. Insomma, quel ragazzo così talentuoso, che nel tempo era diventato il modello a cui riferirsi quando bisognava imparare qualcosa, non faceva il Kung Fu “del guerriero” ma quello del “cliente”. Era lì a pagare un corso per imparare roba per prendersi una cintura nera. Levate tutti i passaggi intermedi e praticamente possiamo dire che era lì per comprarsi una cintura nera.
Mi sentivo un imbecille. Da lì in poi cominciai a informarmi sulle reali possibilità di efficacia del Wushu moderno, e tutti erano unanimi: è sport e nemmeno sport da combattimento. Insomma: ero uscito da una palestra di pugilato per imparare a combattere per davvero… ed ero andato a fare Wushu moderno. Roba da matti, se pensiamo che molto spesso il pugile è proprio il test del Kung Fu man per capire se l’efficacia si mantiene anche contro un vero combattente, che se ti deve dare un pugno te lo dà senza troppi fronzoli. Da quel momento in poi, sono diventato molto più critico e diffidente. Come se qualsiasi sistema o stile o arte marziale nasconda qualcosa che non funziona, che è opinabile, una presa in giro. Certo, bisogna fare attenzione che l’ossessione per la via del guerriero non converga con la fobia del diffidente, altrimenti era meglio il calcetto. Però il rispetto non è questione di fobia: è roba tutta umana, di schietta trasparenza per cui se ti do qualcosa (l’arte) in cambio di qualcos’altro (soldi, sangue, sudore, passione), ti spiego bene cosa ti sto dando.
Il resto è altra storia, la mia storia e interesserà poco ai lettori, sempre ammesso che il mio presente post desti comunque qualche interesse. In quella telefonata, però, ci fu anche un altro punto che mi turbò non poco. Che ancora mi turba, direi. E che ancora, però, non vi racconto.