Nossignori, stavolta non sto parlando del tanto amato Jeet Kune Do. Almeno non solo, dato che intendo dissertare su un metodo di allenamento comune a molte discipline ed arti marziali: l´uso dei colpitori. Focus, pao, colpitori grandi e piccoli, per calci, pugni, ginocchia e gomiti. E sacchi, naturalmente: il re dei colpitori, sua maestà il sacco da boxe. Appeso e basculante o fisso al muro.
Insomma: gran roba per sfogarsi a suon di botte, magari dopo qualche giornata difficile.
È un bel po´ di tempo che, in palestra con i miei allievi-colleghi, mi ritrovo sempre più spesso a lavorare ai focus. Noi facciamo difesa personale e combattimento non regolamentato, quindi all´esordio di una lezione hai quella domandina inconsapevole che ti chiede più o meno: <<Cosa puoi fare oggi per migliorare la tua abilità nella difesa personale?>>. O anche <<Cosa puoi allenare che aumenti in modo determinante la tua probabilità di sopravvivenza nel caso in cui qualcuno voglia farti del male?>>.
Il quesito è interessante e piuttosto importante. La mia risposta, come dicevo, sta diventando sempre più spesso: <<Giovani, stasera tiriamo delle gran botte ai focus, però mentre vi ci metto qualche calcio, pugno o schiaffo per allenarvi la protezione mentre state colpendo>>.
L´altro giorno, poi, vado dal mio maestro per una lezione e salta fuori proprio questo argomento. Anche lui sostiene che l´allenamento ai focus sia qualcosa di decisamente più importante del solito <<Tu attacchi così e io faccio la tecnica numero 7>>, eventualmente dopo aver fatto una forma che in sequenza abbia messo le altre 1, 2, 3, 4, 5, 6.
Alla base di queste metodologie di allenamento c’è a mio avviso un tacito presupposto: colpire al momento giusto è molto più efficace del ragionare in stile <<Al tuo attacco rispondo con quella tecnica>>. Per imparare la tecnica X, che dovrebbe difendermi dal mio aggressore, dovrei farla minimo 10000 volte, che si dice sia il numero minimo per interiorizzare un automatismo. L’automatismo è però qualcosa di automatico, appunto, che scatta in risposta ad uno stimolo preciso e non ad un altro.
Mi spiego. Se state guidando l’auto con serenità in città, con le strade semivuote e ad un certo punto un tizio su una Ferrari vi taglia la strada correndo a 120 km/h, il vostro piede destro balzerà automaticamente ed immediatamente sul freno. Il risultato sarà una frenata improvvisa, che causerà un bel colpo di frusta proporzionale alla velocità che stavate tenendo. L’automatismo piede-freno dipende quindi da uno stimolo preciso, perché se mentre state guidando quella stessa auto vi supera, parallela alla vostra, al massimo sterzerete un po’. Un altro automatismo, diverso dal freno. L’automatismo dipende insomma dallo stimolo.
Di questa metodologia di allenamento sono maestri i Wing Chun men, che della sensibilità hanno fatto il loro mantra. E di cosa tratta la sensibilità se non della capacità di adattarsi ad uno stimolo che viene, appunto, percepito o sentito?
Allenarsi ai focus sviluppa invece un altro tipo di automatismo, che non dipende strettamente dallo stimolo. Al massimo potremmo dire che stiamo studiando come apprendere la capacità di colpire automaticamente un bersaglio (focus, appunto) non appena appare nel nostro campo visivo: il compagno tira su il colpitore e noi dobbiamo colpirlo al più presto. Ma se voi calate nella realtà della difesa personale questo genere di metodo, vi renderete conto che non si tratta affatto dello stesso genere di automatismo a là Wing Chun maniera. In quest’ultimo caso si tratta di adattarsi ad uno stimolo attivo da parte dell’aggressore, per esempio un pugno, che a seconda della direzione, poi, genererà un Tan Sao che disperde o un Bong Sao che devia in basso. Se invece voi partite di gran carriera e immaginate al posto della faccia del malintenzionato un bel focus UFC, non state rispondendo ad uno stimolo attivo e secondario, ma ad uno passivo e primario.
Mi ri-spiego. Definisco uno stimolo come attivo quando è generato da una movimento consapevole dell’avversario, come un pugno, uno schiaffo o una spinta. Con passivo voglio intendere invece uno stimolo che fa da bersaglio, che in quanto tale può essere anche relativamente immobile. Un sacco, per esempio. Quando invece dico primario intendo uno stimolo ad agire che non dipende da un movimento che abbia bisogno di una scelta altrui alla base, perché altrimenti sarebbe secondario. Un pugno diretto al vostro viso è uno stimolo secondario alla scelta dell’avversario di tirarvelo. Il vostro pugno diretto al viso dell’avversario è in riferimento allo stimolo primario consistente nel semplice fatto che la testa del vostro nemico sia in un certo punto nello spazio indipendentemente dalla sua volontà di colpirvi. In questo senso, si arriva ad un deciso allineamento di attivo-secondario e passivo-primario. Quasi ad una ridondanza. Il punto cruciale è però che l’allenamento del tipo tradizionale <<Tu tiri un pugno e io faccio la tecnica X>> è chiaramente una risposta ad uno stimolo attivo-secondario, mentre esercitarsi a colpire i focus è una risposta ad uno stimolo passivo-primario.
Si nota chiaramente che nel primo caso la dinamica combattiva presenta una variabile che nel secondo non c’è: la scelta dell’avversario, il suo movimento verso di noi. Adesso, la riflessione mia e del mio maestro può essere più o meno detta così: se ci alleniamo a colpire velocemente l’avversario, più che a gestire i suoi colpi, abbiamo una cosa in meno di cui preoccuparci, che è precisamente il suo attacco. La mente è più libera, la nostra abilità non è vincolata ad un parametro che non dipende da noi (il suo attacco). Se siamo quindi molto veloci e tecnici, riusciamo a finire il combattimento molto prima che diventi per noi pericoloso come sarebbe se dovessimo concedere all’avversario il primo attacco.
È in definitiva l’intuizione del Jeet Kune Do di Bruce Lee: intercetto il tuo attacco con un altro attacco, solo che io entro prima di te perché, anche se tu parti prima, io finisco prima perché sono più veloce. Non devo quindi preoccuparmi di cosa farai di preciso.
Certo, bisogna essere veloci e potenti, altrimenti non arriveremo mai prima di uno che si è già mosso per colpirci. A parità di velocità e chiaro che entra chi si è mosso per primo. Non a caso, però, Lee era un tipetto veloce e i praticanti di Jeet Kune Do si allenano moltissimo a livello atletico: è molto più importante essere veloci per intercettare ed entrare prima, rispetto all’attendere il pugno per gestirlo. Un errore, quest’ultimo, tipico del Kung Fu tradizionale, che usa infatti mooooolto meno i colpitori. Il mio maestro concludeva con queste interessanti parole: <<L’allenamento ai focus è quindi fondamentale perché insegna ai ragazzi a difendersi senza che nemmeno se ne accorgano, visto che diventano potenzialmente capaci di finire un combattimento colpendo al momento giusto. Gli insegni a combattere senza combattere>>.
Una declinazione del fighting without fighting abbastanza diversa e originale dal solito bruceleeanismo. Certo, l’avversario deve essere più lento, e una avversario più lento è sempre più gestibile di uno veloce. Non possiamo insomma considerare l’allenamento ai focus come un alternativa allo sparring vero, ma quantomeno insegna prima di tutto a colpire con efficacia. Il Kung Fu tradizionale sottovaluta troppo questo aspetto di una metodologia tipicamente pugilistica, prediligendo il vecchio attacco-risposta più orientaleggiante. Il punto è trovare l’equilibrio. Taoistico equilibrio.